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domenica 28 ottobre 2018

LA TRAPPOLA DEL GIOCO dalla passione alla dipendenza



Se desideriamo essere felici, il gioco è un ingrediente che non può mancare.

Attività tipica dell’infanzia, ma necessaria anche nelle altre età della vita, è caratterizzato da sentimenti di piacevolezza e gratificazione che risiedono nel gioco stesso e non nel fine o nel risultato che esso produce.
In modo diverso a seconda dell’età, esso è il nutrimento essenziale della nostra esistenza: il bambino che non ha potuto giocare diventa spesso il “bravo ometto” incapace di sorprendersi e di provare abbandono; l’adolescente che non gioca sarà un adulto compresso e con difficoltà relazionali. L’adulto che non gioca più è sempre stressato, tirato e stanco. L’anziano che non sa più giocare invecchia tra mille acciacchi, pessimismo e depressione. Una linfa vitale, dunque, dai multiformi aspetti.

L’adulto di oggi sa giocare poco. Spesso tenta di unire l’utile al dilettevole, o crede che ciò che è utile a qualche finalità sia anche ciò che gli dovrebbe piacere. A volte sceglie i giochi in base ai condizionamenti dei media e pensa di divertirsi, ma in realtà si annoia. Altre volte intende il gioco come tutto ciò che è fuga dalla realtà, oppure proprio non sa giocare e prende tutto sul serio. A volte gioca nel momento sbagliato, ad esempio sul lavoro o nei momenti seri di un discorso. Talvolta non si diverte se non c’è una ferrea competizione, oppure pensa che essere adulti significhi non giocare più. E altre volte “gioca” con i sentimenti degli altri, come l’eterno Peter Pan, la cui sindrome è oggi in piena espansione.
Oppure gioca, ma d’azzardo.

La parola “azzardo” deriva dal francese hasard , un termine a sua volta di origine araba e derivante dal termine az-zahr che designava il “dado”, uno dei più antichi oggetti a cui si lega la tradizione del gioco sociale di scommessa.
Il gioco dei dadi viene citato nella Letteratura Vedica[1]; nell’antica Grecia era usuale scommettere sui risultati dei giochi olimpici; le cosiddette munera erano le puntate con cui gli antichi romani scommettevano sui combattimenti dei gladiatori.

Oggi, la dimensione sociale del gioco d’azzardo è in gran parte favorita dalle crescenti possibilità di scelta tra una vasta gamma di tipologie di gioco, purtroppo sempre più legalizzate, che rispondono alle esigenze di giocatori con diverse propensioni e differenti personalità: dai giocatori d’azzardo da gran salone, come quelli che frequentano i casinò e le slot-machine, agli appassionati dei videogiochi che si lasciano conquistare dai sempre più diffusi videopoker, agli appassionati dei giochi d’azzardo popolari, come le lotterie, il superenalotto, il totip, fino al Bingo, la moderna trasformazione del gioco della tombola, che riesce a conquistare anche interi gruppi grazie al suo profondo legame con il vissuto di una vecchia usanza festiva a dimensione familiare.
Recentemente è possibile anche scommettere su eventi non sportivi come i festival musicali (Sanremo ed Eurovision Song Contest) e i reality.

L'organizzazione del gioco d'azzardo, in tutti i paesi in cui è permesso, è in pratica gestita dallo stato, il quale appalta a ditte private, dietro pagamento di una forte tassa, l'esclusiva in una delimitata zona. L'attività di gestione di un casinò o di una agenzia scommesse è estremamente redditizia e si presta a molti traffici illegali, come riciclaggio di denaro sporco, estorsione, usura e altre attività criminali organizzate, rendendo indispensabile un suo stretto controllo. Tuttavia non sempre tali controlli vengono eseguiti in maniera scrupolosa e capillare e quindi molti Stati UE, tra cui l'Inghilterra e recentemente anche Spagna e Italia, hanno optato per la liberalizzazione del settore, in modo da relegare al mercato il controllo della serietà e onestà delle case da gioco.
La nozione di gioco d'azzardo si evince dall'art. 720 del codice penale: sono giochi d'azzardo quelli in cui ricorre il fine di lucro e la vincita o la perdita sono interamente o quasi interamente aleatorie.

Nel trattato “Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni” (1776), l’economista scozzese Adam Smith dedica un paragrafo[2] alla questione riguardante la scarsa equità delle lotterie nazionali:
Non è mai esistita e mai esisterà al mondo una lotteria perfettamente equa, tale cioè che il guadagno totale compensi la perdita totale, poiché il gestore non ne ricaverebbe niente. I biglietti nelle lotterie di Stato non valgono realmente il prezzo pagato dai sottoscrittori originari e tuttavia si vendono comunemente sul mercato con un sovrapprezzo del venti per cento, del trenta per cento e qualche volta del quaranta per cento. La vana speranza di guadagnare uno dei grandi premi è la sola ragione di questa domanda. Anche le persone più equilibrate difficilmente considerano una follia pagare una piccola somma in cambio della possibilità di guadagnare dieci o ventimila sterline, perché non sanno che quella somma, pur piccola, è superiore del venti o trenta per cento al valore della probabilità che rappresenta”.

Nell’era multimediale il giocatore d’azzardo ha cambiato veste: mentre prima era facilmente individuabile, “segregato” nei luoghi a lui deputati, ora chiunque sia in possesso di un computer, di un collegamento a internet e di una carta di credito, può diventare un giocatore compulsivo. Il gioco on-line è estremamente pericoloso proprio perché, nella solitudine della propria casa, il giocatore non ha freni, né inibitori, né di tipo pratico: ha infatti 24 ore su 24 la possibilità di accedere al gioco senza incorrere nello sguardo giudicante degli altri. Viene in questo modo a mancare anche la funzione socializzante del gioco, che diviene un rituale solitario. Anche qui, come nelle altre net-patologie, si crea un circolo vizioso in cui il soggetto rimane incastrato, trascurando i rapporti sociali e familiari.

Il gioco d'azzardo patologico è un disturbo del comportamento che, benché rientri tuttora nella categoria diagnostica dei disturbi ossessivo-compulsivi, ha in realtà una grande attinenza con la tossicodipendenza, tanto da rientrare nell'area delle cosiddette "dipendenze senza sostanze".
Il giocatore patologico, infatti, mostra una crescente dipendenza nei confronti del gioco d'azzardo, aumentando la frequenza delle giocate, il tempo passato a giocare e la somma spesa nel tentativo di recuperare le perdite, investendo più delle proprie possibilità economiche e trascurando i normali impegni della vita.

Se un individuo presenta almeno cinque di questi sintomi, viene diagnosticato un quadro di gioco d’azzardo patologico (DSM-IV, 1994):
1.      È eccessivamente assorbito dal gioco d’azzardo (per esempio, il soggetto è continuamente intento a rivivere esperienze trascorse di gioco, a valutare o pianificare la prossima impresa di gioco, a escogitare i modi per procurarsi denaro con cui giocare)
2.      Ha bisogno di giocare somme di denaro sempre maggiori per raggiungere lo stato di eccitazione desiderato
3.      Ha ripetutamente tentato di ridurre, controllare o interrompere il gioco d’azzardo, ma senza successo
4.      È irrequieto o irritabile quando tenta di ridurre o interrompere il gioco d’azzardo
5.      Gioca d’azzardo per sfuggire ai problemi o per alleviare un umore disforico (per esempio, sentimenti di impotenza, colpa, ansia, depressione)
6.      Dopo aver perso al gioco, spesso ritorna un altro giorno a giocare ancora (rincorrendo le proprie perdite)
7.      Mente ai membri della propria famiglia, al terapeuta o ad altri per occultare l’entità del proprio coinvolgimento nel gioco d’azzardo
8.      Ha commesso azioni illegali come falsificazione, frode, furto o appropriazione indebita per finanziare il gioco d’azzardo
9.      Ha messo a repentaglio o perso una relazione significativa, il lavoro, oppure opportunità scolastiche o di carriera per il gioco d’azzardo
10.  Fa affidamento sugli altri per reperire il denaro per alleviare una situazione economica disperata causata dal gioco (“operazione di salvataggio”).

Nella “ludodipendenza” (o compulsive gambling), il vero senso del gioco, attraverso cui si può costruire e scoprire il proprio Sè - sperimentando libertà, creatività, apprendimento di regole e ruoli e sospendendo le conseguenze reali - viene completamente ribaltato per trasformarsi in schiavitù, ossessione, ripetitività.

In relazione alle motivazioni che sembrano determinare e accompagnare il gioco d’azzardo, alcune ricerche hanno distinto le seguenti tipologie di giocatori (Alonso Fernandez F., 1996, Dickerson M., 1993):
·         il giocatore sociale, che mosso dalla partecipazione ricreativa, considera il gioco come un’occasione per socializzare e divertirsi;
·         il giocatore problematico in cui, pur non essendo presente ancora una vera e propria patologia attiva, esistono dei problemi sociali da cui sfugge o a cui cerca soluzione attraverso il gioco;
·         il giocatore patologico in cui la dimensione del gioco è ribaltata in un comportamento distruttivo che è alimentato da altre serie problematiche psichiche;
·         il giocatore patologico impulsivo/dipendente in cui i gravi sintomi che sottolineano il rapporto patologico con il gioco d’azzardo sono talvolta più centrati sull’impulsività e altre volte sulla dipendenza.

Lo stato mentale di un giocatore patologico si caratterizza per il raggiungimento di uno stato similare alla sbornia, con una modificazione della percezione temporale, un rallentamento o perfino blocco del tempo, che conduce ad uno stato di estasi ipnotica dal gioco. Talvolta questa condizione della mente è favorita da un reale consumo di alcolici o di altre sostanze, associato al gioco, che alimenta la perdita di controllo della propria condotta.
Si può parlare di una vera e propria “dipendenza dal gioco d’azzardo” se sono presenti cosiddetti sintomi di tolleranza, come il bisogno di aumentare la quantità di gioco, sintomi di astinenza, come malessere legato ad ansietà e irritabilità associati a problemi vegetativi o a comportamenti criminali impulsivi e sintomi di perdita di controllo, manifestati attraverso l’incapacità di smettere di giocare.

I giochi che sembrano predisporre maggiormente al rischio sono quelli che offrono maggiore vicinanza spazio-temporale tra scommessa e premio, quali le slot-machine e i giochi da casinò, ma anche i videopoker e il Bingo.
Le fasce più a rischio sembrano invece, tra le donne, le casalinghe e le lavoratrici autonome dai quaranta ai cinquant’anni e, tra gli uomini, i disoccupati o i lavoratori autonomi che hanno un frequente contatto col denaro o con la vendita ed un’età intorno ai quarant’anni.

Alcuni autori (R. Custer, 1982) distinguono le fasi di progressione del gioco d’azzardo patologico, in cui un giocatore si può muovere sia sul versante dell’aggravamento del problema che della possibile risoluzione dello stesso. Più precisamente sono state individuate le seguenti tappe:
FASE VINCENTE: caratterizzata dal gioco occasionale e da vincite iniziali che motivano a giocare in modo crescente, spesso grazie alla capacità del gioco di produrre un piacere e di alleviare tensioni e stati emotivi negativi;
FASE PERDENTE: connotata dal gioco solitario, dall’aumento del denaro investito nel gioco, dalla nascita di debiti, dalla crescita del pensiero relativo al gioco e del tempo speso a giocare;
FASE DI DISPERAZIONE: in cui cresce ancora il tempo dedicato al gioco e l’isolamento sociale conseguente, con il degenerare dei problemi lavorativi/scolastici e familiari (divorzi, separazioni) che talvolta generano anche gesti disperati di tentativi di suicidio;
FASE CRITICA: in cui nasce il desiderio di aiuto, la speranza di uscire dal problema e il tentativo realistico di risolverlo attraverso il ritorno al lavoro, nonché i tentativi di ricucire debiti e problemi socio-familiari;
FASE DI RICOSTRUZIONE: in cui cominciano a vedersi i miglioramenti nella vita familiare, nella capacità di pianificare nuovi obiettivi e nell’autostima;
FASE DI CRESCITA: in cui si sviluppa maggiore introspezione e un nuovo stile di vita lontano dal gioco.

Dal momento in cui il gioco d’azzardo patologico è stato riconosciuto come un vero e proprio disturbo psicologico, distinto da altre problematiche, sono stati sviluppati diversi programmi di intervento sul problema. Spesso la terapia si svolge in vere e proprie comunità di recupero (gruppi di auto-aiuto per Giocatori Anonimi), ed è fondata su diversi step per l’uscita dal problema: dal suo riconoscimento, alla condivisione, ai traguardi verso l’abbandono basati sull’analisi delle tecniche di autoinganno comuni che spesso vengono più facilmente osservate nei racconti degli altri giocatori. Gli obiettivi sono sempre centrati sulla possibilità di modificare, oltre che il comportamento di gioco, il substrato cognitivo legato all’idea che prima o poi arriverà il giorno in cui il gioco potrà cambiare la propria vita risolvendo magicamente i propri problemi.

La Tradizione Bhaktivedantica dedica un’attenzione particolare al problema della dipendenza dal gioco d’azzardo, tanto che la pratica spirituale giornaliera (sadhana) di chi desidera incamminarsi sul sentiero della realizzazione e della trascendenza si basa su una rigorosa astensione da tale forma di comportamento nocivo.
Secondo, infatti, la legge del Dharma, l’insieme dei principi etici universali che regolano l’ordine cosmico, qualunque comportamento volto a danneggiare altri esseri umani o che implichi alterazioni di coscienza è da considerarsi pericoloso e va pertanto evitato:
“….Tutto ciò che intossica, tutto ciò che altera lo stato psichico, tutto ciò che artificialmente inebria o stordisce, deve essere evitato. Il gioco d’azzardo va evitato in quanto destabilizza la mente. Attenzione, perché non si gioca d’azzardo solo al casinò. Si può giocare d’azzardo anche con la propria vita, o con la vita degli altri. Questa espressione indica più esattamente di evitare di porsi in situazioni che sono inutilmente rischiose, per noi e/o per terzi” (Tratto da una lezione di Marco Ferrini, Trento, 13 aprile 2003).

La Bhagavad-gita esorta inoltre in modo chiaro a rifuggire dalle passioni pericolose:
“O capo dei Bharata, quando vi è un incremento della passione, si sviluppano i sintomi di un grande attaccamento, si moltiplicano le attività interessate e gli sforzi intensi, i desideri incontrollabili e le aspirazioni ardenti.” (Bhagavad-gita, XIV, 12)
“Essi (gli esseri dalla coscienza ottenebrata) credono che la gratificazione dei sensi sia la necessità primaria della civiltà umana, così fino a termine dei loro giorni vivono in un'ansia senza limiti. Impigliati in una rete di desideri, immersi nella lussuria e nella collera, accumulano denaro con mezzi illeciti per soddisfare i sensi.” (Bhagavad-gita, XVI, 11-12)
“Gli esseri dalla coscienza ottenebrata pensano: "Oggi possiedo tutta questa ricchezza e secondo i miei piani ne otterrò ancora di più. Ora tutto questo è mio e domani avrò di più, sempre di più. Quell'uomo era un mio nemico e io l'ho ucciso e anche gli altri nemici saranno a loro volta uccisi. Io sono il padrone di tutto, sono colui che gode di tutto. Ecco come queste persone sono sviate dall'ignoranza.” (Bhagavad-gita, XVI, 13-15)

La Psicologia tramandata dalla cultura vedica fornisce vari strumenti per rendere la nostra coscienza più chiara e limpida: mantra, visualizzazioni meditative, tecniche yoga e altre semplici pratiche per equilibrare il rapporto mente-corpo-anima.
Come tutte le dipendenze, infatti, il gioco d’azzardo nasce da un eccessivo investimento di energie sul piano mentale che genera un continuo “girare a vuoto” tra ansie e aspettative. Il migliore rimedio a tali disturbi consiste nel portare consapevolezza e attenzione nei propri comportamenti, evitando di scacciarli o di combatterli, perché ciò ne alimenterebbe proprio la fonte (in genere, più ci ostiniamo a pensare all’oggetto della dipendenza, più questo si impadronisce della nostra mente).
Invece, le pratiche spirituali fondate sulle antiche tecniche yogiche di pranayama (controllo del respiro), pratyahara (concentrazione) e dhyana (meditazione), ispirate dai Saggi Indiani, insegnano a porsi in una posizione di distacco rispetto al flusso mentale (citta vritti), talvolta coercitivo, della nostra coscienza e a ritrovare gradualmente un dialogo costruttivo con il nostro vero Sé e con la nostra anima (atman).
Secondo la Tradizione Bhaktivedantica, anche la pratica regolare del mahamantra
hare krishna hare krishna krishna krishna hare hare hare rama hare rama rama rama hare hare
possiede la proprietà di “ripulire” la mente dai pensieri “tossici” e di illuminare le zone buie del nostro inconscio. Come affermato nella Caitanya-caritamrita:

hare nama harer nama
harer namaiva kevalam
kalau nasty eva nasty eva
nasty eva gatir anyatha

“Per il progresso spirituale in questa era di Kali non c’è alternativa, non c’è alternativa, non c’è alternativa al di fuori del santo nome, del santo nome, del santo nome del Signore” (Adi-lila, cap. 7, verso 76).
Il mantra, infatti, attraverso la sua vibrazione trascendente, ridesta in noi la coscienza originaria di esseri spirituali e aiuta a liberarci dalla morsa dell’illusione e dei condizionamenti (maya).
Con l’uso appropriato di tali terapie, il gioco, invece di portare degrado e schiavitù, tornerà ad essere un elemento naturale di crescita e felicità, un modo ideale per fermare il tempo e far uscire la nostra vera essenza.

Caterina Carloni



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[1] Nel poema epico Mahabharata si narra di una  partita a dadi truccata, organizzata dal diabolico Duryodhana per
   sbarazzarsi dei suoi cugini, i Pandava, e impossessarsi in modo fraudolento del loro regno e dei loro beni (Mahabharata I.41-46).
[2]Dei salari e dei profitti nei diversi impieghi del lavoro e dei fondi”, libro primo, capitolo X.

sabato 27 ottobre 2018

Con gli occhi di un bambino







“Tre cose ci sono rimaste del paradiso: le stelle, i fiori e i bambini” (Dante Alighieri)


“Un tempo lontano, quando avevo sei anni, in un libro sulle foreste primordiali vidi un magnifico disegno: rappresentava un serpente boa nell’atto di inghiottire un animale. Sotto c’era scritto: “I boa ingoiano la loro preda tutta intera, senza masticarla. Dopo di che non riescono più a muoversi e dormono durante i sei mesi che la digestione richiede”. Meditai a lungo sulle avventure della jungla, e, a mia volta, riuscii a tracciare il mio primo disegno. Poi mostrai il mio capolavoro alle persone grandi, domandando se il disegno li spaventava, ma tutti mi risposero: “Spaventare? Perché mai uno dovrebbe essere spaventato da un cappello?”. Ma il mio disegno non era quello di un cappello. Era il disegno di un boa che digeriva un elefante. Fu così che a sei anni io rinunciai a quella che avrebbe potuto essere la mia gloriosa carriera di pittore. Scelsi un’altra professione e imparai a pilotare gli aeroplani. Nel tempo, ho incontrato molte persone importanti e ho vissuto a lungo in mezzo ai grandi. Li ho conosciuti intimamente, li ho osservati proprio da vicino. Ma l’opinione che avevo di loro non è molto migliorata. Quando ne incontravo uno che mi sembrava di mente aperta, tentavo l’esperimento del mio primo disegno, che ho sempre conservato. Cercavo di capire così se era veramente una persona comprensiva. Ma, chiunque fosse, uomo o donna, mi rispondeva: “E’ un cappello”. E allora non parlavo di boa, di foreste primitive, di stelle. Mi abbassavo al suo livello. Gli parlavo di bridge, di golf, di politica, di cravatte. E lui era tutto soddisfatto di aver incontrato un uomo tanto sensibile.”

Così comincia il famoso racconto di Antoine de Saint-Exupery “Il piccolo Principe” (1943), un vero e proprio inno alla purezza dei sentimenti dei bambini e alla loro capacità di vedere il mondo con idealismo e candore, riuscendo a ricontattare, pur tra le asprezze e le delusioni della vita, il lato poetico e misterioso dell’esistenza.

Il Piccolo Principe - l’archetipo del puer aeternus (l’eterno fanciullo o fanciullo divino) - incarna la tendenza, tipica dell’infanzia, a restare affascinati dalla natura, dal gioco, dalle piccole cose che appaiono come doni inestimabili della vita; esprime la saggezza che deriva dal saper ascoltare le favole, parlare con gli animali e coglierne i segreti, come quello sussurrato al bambino dalla sua amica Volpe: “Ecco il mio segreto. E’ molto semplice: non si vede bene che con il cuore, perché l’essenziale è invisibile agli occhi”.

Coniato nel 1912 da Jung, il termine puer aeternus fu successivamente  ripreso da altri psicologi e terapeuti dell’epoca che addirittura lo impiegarono come sinonimo dell’Es, l’inconscio individuale.

L’archetipo, vasto e complesso, racchiude, in realtà, come tutti i simbolismi, molte contraddizioni, zone d’ombra e differenti sfumature interpretative: per Jung il bambino interiore rappresenta l’inizio e la fine, la creatura che esisteva prima dell’uomo e, al tempo stesso, la creatura finale, un’anticipazione di quello che la creatura sarà e della sua vita oltre la morte. Il suo tema è legato alla rinascita, alla gioia e alla creatività, ma può avere anche una connotazione aggiuntiva diversa: l’allieva prediletta di Jung, M.L. Von Frantz, ha preso in esame, ad esempio, nel suo libro “Il Puer aeternus”, il suo aspetto di ombra; se da un lato, infatti, il bambino rappresenta il rinnovamento della vita, la spontaneità ed una nuova apertura verso il futuro, dall’altro manifesta anche un aspetto distruttivo: la tendenza a essere dipendente, pigro e a fuggire i problemi, rappresentando “l’infantilismo” che deve essere sacrificato per poter crescere.

L'opposto polare del Puer, secondo la visione di Jung, è il Senex, ovvero la rappresentazione mitologica di Saturno/Cronos, il signore del Tempo e del Karma. Saturno è il pianeta simbolicamente preposto alla strutturazione dell'Io, quindi alla maturazione e concretizzazione degli obiettivi, associato alla razionalità e alla fredda logica. Mentre il Senex si perfeziona attraverso il tempo, per il Puer non esiste sviluppo. Egli non possiede un volto organico che maturi, cresca e si trasformi.
Come ben rileva Hillmann nei suoi studi (“Saggi sul Puer”, 1986), tuttavia, “….. è solo nella prospettiva dell’Io che divengono possibili le opposizioni, generando, come nel caso di Puer e Senex, un archetipo bifronte”. I due modelli convergono, secondo l’autore, nella figura di Ulisse, il quale, grazie a questa sua doppia valenza, viene condotto dal cieco Tiresia all’iniziazione rituale della discesa al mondo degli inferi. “…Ciò gli consente di cogliere il significato della sua missione nel mondo: lo spirito giovane trova la sua controparte ammonitrice e piena di esperienza che gli insegna la sopravvivenza mentre l’uomo adulto ritrova il pathos dell’eroe e il cuore ridestato. Può così salpare di nuovo e continuare a viaggiare”.

Sul piano mitologico, il puer è correlato all’immagine del paradiso perduto, quel luogo d'amore, armonia e felicità che precede il cosiddetto peccato originale e la conseguente “caduta” al piano dualistico dell'esistenza (o separazione da Dio). La letteratura occidentale ce lo propone personificato, a seconda degli autori, in Peter Pan, Icaro, Hermes/Mercurio, i gemelli Castore e Polluce ed Eros/Cupido. La puella trova invece la sua raffigurazione più potente nella figura di Kore- Persefone.

Hermes è il giovane Dio, messaggero dell'Olimpo, dotato di calzari alati che gli permettono di volare. Si diletta a fare scherzi ai divini fratelli, ma viene sempre perdonato dal Padre Zeus, poiché la caratteristica dell’eterno fanciullo è di suscitare in tutti simpatia. Il dio presiede le facoltà intellettive e la comunicazione; ha il compito di far circolare le informazioni e le notizie. Per fare ciò, sorvola velocemente il mondo delle idee, saltando da un luogo all'altro, discontinuo e in perenne moto.

Anche Peter Pan, noto puer aeternus delle favole, ama solo giocare, anzi; per lui non c'è alcuna differenza tra gioco e realtà, e la cosa che più teme è la noia. É in grado di volare perché non ha mai smesso di credere di poterlo fare.

Una rappresentazione recente del puer è anche la figura di Mozart così come è stata portata sullo schermo nel film di Milos Forman Amadeus: gioioso, giocoso, irriverente, ben convinto del suo talento, in estasi di fronte agli apprezzamenti.

La letteratura dell’India antica contiene numerose storie i cui protagonisti sono fanciulli dotati di qualità divine. Non solo: le Scritture Vediche affermano chiaramente che i bambini rappresentano una delle molte vie attraverso le quali Dio si manifesta agli uomini per indicare loro la strada per raggiungerLo.

L’undicesimo Canto dello Srimad Bhagavatam,, indica, oltre al diksha-guru, che inizia ai sacri mantra, e allo siksha-guru, che dà gli Insegnamenti, ben altri ventiquattro guru, tra cui il bambino. Essi appaiono all’inizio della sezione chiamata Uddhava-gita, in cui Uddhava, devoto e cugino di Krishna, s’incontra con Lui poco prima della Sua partenza da questo mondo per chiederGli istruzioni spirituali.

Shri Krishna spiega ad Uddhava che il loro antenato, il re Yadu, conosceva un giovane avadhuta, un rinunciato senza fissa dimora che aveva lasciato tutte le sue proprietà e le sue responsabilità materiali. Yadu notò che questo giovane aveva un aspetto sereno e gioioso benché non avesse alcuna delle consuete comodità della vita. E allora gli chiese come facesse ad essere così felice. L’avadhuta rispose che era stato abbastanza fortunato da avere avuto molti maestri, i quali gli avevano indicato il cammino da percorrere:

“O re, ho preso rifugio in ventiquattro guru, che sono i seguenti: la terra, l’aria, lo spazio, l’acqua, il fuoco, la luna, il sole, il piccione e il pitone; il mare, la falena, l’ape mellifera, l’elefante e il ladro di miele; il cervo, il pesce, la prostituta Pingala, l’uccello kurara e il bambino; la ragazza, il fabbricante di frecce, il serpente, il ragno e la vespa. Mio caro re, studiando le loro attività ho appreso la scienza di sé” (Srimad-Bhagavatam XI.7.35).

L’insegnamento ricevuto dal bambino viene così descritto:

“Nella vita di famiglia, i genitori sono sempre ansiosi per la casa, per i figli e per la reputazione. Ma io non ho nulla a che vedere con queste cose. Non mi preoccupo affatto della famiglia, non m’importa dell’onore e del disonore. Godo soltanto della vita dell’anima, e trovo l’amore sul piano dello spirito; così viaggio sulla terra come un bambino” (Shrimad-Bhavagatam XI.9.4).



La vicinanza tra il mondo infantile e quello divino è testimoniato anche da altre tradizioni spirituali, come quella cristiana: “Lasciate che i bambini vengano a me, perché di essi è il regno dei Cieli; se non diventerete come bambini non potrete entrare nel regno di Dio”, è scritto nel Vangelo di San Luca (18.15-17). Diventare come bambini significa recuperare lo sguardo incantato sul mondo; sapersi liberare da schemi e pregiudizi per ritrovare la purezza, la capacità di provare meraviglia e di sentire una fiducia incondizionata verso la vita. Vuol dire ritrovare la semplicità e l’abbandono filiale a Dio.

Negli Yoga Sutra di Patanjali, ciò è sottolineato con forza:

“Ishvara pranidhanad va”, [ samadhi può essere ottenuto] praticando l’abbandono a Dio.

“Il samadhi può anche manifestarsi non necessariamente come il frutto di una metodologia rigorosa ma spontaneamente, causato dall’amore per Dio” (Marco Ferrini, “Psicologia dello Yoga”, commento agli Yoga Sutra di Patanjali, Samadhi Pada, sutra XXIII).

É fondamentale per ognuno di noi riuscire a contattare e risvegliare il fanciullo divino che dimora nella nostra anima, perché è l'unico che ci consente di vivere la realtà senza rinunciare ai nostri sogni, ideali e valori.

Recuperare la dimensione archetipica del bambino equivale a portare nella nostra vita valori di umanità, coraggio nel tendere una mano anche a chi ci osteggia, ricongiungersi con la nostra parte bambina ferita e trascendere quel dolore, imparare a perdonarsi e a perdonare. Come dimostra la straordinaria storia di Prahlada Maharaja, un bambino di appena cinque anni dal cuore puro e dotato di divina saggezza, narrata nel settimo canto dello Srimad-Bhagavatam:

“Hiranyakashipu (il terribile demone che terrorizzava l’universo intero) aveva quattro figli meravigliosi, ma tra loro Prahlada era il migliore. Prahlada, infatti, era la fonte di tutte le qualità spirituali perché era un puro devoto di Dio, la Persona Suprema” (Shrimad-Bhagavatam VII.4.30).

“Dotato di ottimo carattere e di un’eccellente cultura degna di un brahmana qualificato, Prahlada era fermamente determinato a comprendere la Verità Assoluta e dominava in modo perfetto la mente e i sensi. Era gentile verso tutti gli esseri come lo è l’Anima Suprema, ed era il migliore amico di tutti: con le persone degne di rispetto agiva esattamente come un umile servitore, per i poveri era come un padre, per i suoi pari era affettuoso come un fratello comprensivo, e considerava i suoi maestri spirituali e i confratelli più anziani come Dio, la Persona Suprema stessa. Era completamente libero dall’orgoglio innaturale che avrebbe potuto nascere in lui a causa della sua buona educazione, delle sue ricchezze, della sua bellezza, della sua aristocrazia o altro (Shrimad-Bhagavatam VII.4.31-32).

Pur essendo nato in una famiglia di demoni (asura), il bambino non era un demone, ma un grande devoto di Dio e per questo motivo suo padre lo tormentava continuamente, benché egli fosse il suo stesso figlio. Quanto più Prahlada Maharaja glorificava il Signore Supremo, tanto più il demone suo padre si agitava e s’irritava, fino al punto da decidere di ucciderlo. Un giorno Hiranyakashipu, esasperato dalla ferma devozione e fede di suo figlio, gli chiese se per caso Dio fosse presente anche nelle colonne del palazzo. Prahlada immediatamente affermò che, grazie alla Sua onnipresenza, il Signore era certamente anche là. Nell’ascoltare questa risposta dalle labbra del bambino, Hiranyakasihpu cominciò a deriderlo definendo fantasie infantili le sue affermazioni e assestando contemporaneamente con forza un pugno sulla colonna.

Non appena ebbe colpito la colonna, un suono tumultuoso ne uscì, e apparve il Signore nella meravigliosa forma di Sri Nrisimhadeva, mezzo uomo e mezzo leone, che uccise immediatamente il re dei demoni. Quindi il Signore si sedette sul trono, mentre Prahlada Maharaja Gli offriva omaggi e preghiere.

“Quando Sri Nrisimhadeva  vide il piccolo Prahlada Maharaja prostrato alle piante dei suoi piedi di loto, sentì una grande estasi suscitata dall’affetto verso il Suo devoto. Sollevando Prahlada, il Signore appoggiò sulla testa del bambino la Sua mano di loto che è sempre pronta a dissipare la paura in tutti i Suoi devoti (Shrimad-Bhagavatam VII.7.5).

“Caro Signore – disse Prahlada Maharaja – la gente desidera elevarsi ai sistemi planetari superiori per godere di una lunga vita di opulenza e di piacere, ma io ho già considerato tutto ciò nell’attività di mio padre. Quando mio padre in collera rideva con sarcasmo degli esseri celesti, essi erano immediatamente vinti da un semplice movimento delle sue sopracciglia. Eppure, mio padre che era così potente, è stato dominato e liberato da Te in un attimo. Caro Signore, ora ho un’esperienza completa di ciò che si riferisce all’opulenza di questo mondo, ai poteri mistici, alla longevità e agli altri piaceri materiali di cui godono tutti gli esseri, da Brahma fino alla formica. Nella forma del tempo potente Tu li distruggi tutti. Perciò, grazie alla mia esperienza, io non desidero possederli. Signore, Ti chiedo di mettermi in contatto con un Tuo puro devoto e fare in modo che io possa servirlo come un sincero servitore” (Shrimad-Bhagavatam VII.9.23-24).

Dio, la Persona Suprema, disse: “Caro Prahlada, tu sei così buono. Auguro ogni buona fortuna a te, che sei il migliore nella famiglia degli asura. Sono molto soddisfatto di te. É mia gioia soddisfare i desideri di tutti gli esseri, perciò tu puoi chiederMi qualunque benedizione desideri ottenere” (Shrimad-Bhagavatam VII.9.52).

Il grande devoto Prahlada Maharaja chiese la sola benedizione del perdono delle attività colpevoli del padre e, su ordine del Suo Salvatore, Shri Nrisimha, si insediò sul trono agendo come un re saggio e giusto, distaccato dai beni materiali e incessantemente assorto ad ascoltare gli Insegnamenti  del Signore e ad adorarlo.

L’abbandono al Signore Supremo da parte del piccolo Prahlada, gli consente di superare tutte le prove e di conquistare il favore divino, proprio come affermato nella Bhagavad-gita: “Coloro che seguono la via imperitura del servizio di devozione e s’impegnano in modo totale, con fede, facendo di me l’obiettivo supremo, Mi sono molto, molto cari” (Bhagavad-gita XII.20).

Un’altra affascinane storia, riguardante un bambino dalle doti straordinarie e dalla tenacia irremovibile nel ricercare la grazia del Signore Supremo, si trova nel IV canto dello Shrimad-Bhagavatam. Si racconta che Dhruva, un bambino di cinque anni, figlio del re Uttanapada, fu offeso così profondamente nel suo orgoglio, vedendosi respinto dal padre, che decise di praticare una penitenza di sei mesi astenendosi dal cibo e dall’acqua. Con la mente fissa sul Signore e recitando un potente mantra, chiese a Dio di diventare il più potente re dei tre mondi e di occupare una posizione mai raggiunta da nessuno prima di lui. Questo sacrificio impressionò i cieli e Shri Vishnu apparì di fronte al ragazzo per accontentarlo, ma proprio in quel momento, Dhruva, il bambino kshatriya (il comparto sociale dei guerrieri secondo la cultura vedica), comprese che il vero fine dell’esistenza non era il successo materiale ma la liberazione dalla ruota di nascite e morti, e si accorse di aver pregato solo per cose inutili. Grazie alla sua comprensione dei valori eterni e della caducità dei beni terreni, Dio, il Signore Supremo, gli concesse di governare sulla Stella Polare, il grande pianeta scintillante circondato da tutti i sistemi solari. Questa storia ci insegna che tra i grandi pregi dei bambini c’è la capacità di crescere, ravvedersi e apprendere.

Anche nella Katha Upanishad è narrata la storia di un bambino di 10 anni che insegna, con il suo esempio, a percorrere il cammino della conoscenza spirituale  e della liberazione dagli attaccamenti.

Naciketa, figlio di un brahmino (un sacerdote che officiava i sacrifici volti ad ottenere il favore divino), ispirato da profonda saggezza, intuisce l’inutilità di un sacrificio tramite il quale si rinuncia a tutto (vacche, oro e ogni altra proprietà) tranne che a se stessi, trattenendo proprio quell’ego che è alla radice di ogni sofferenza e causa dell’incatenamento alla legge di nascite e morti.

“Naciketa, avvicinatosi (un giorno) al proprio padre, gli chiese: Padre, a chi mi offrirai come sacrificio? Il fanciullo pose questa domanda due volte, e poi una terza. Suo padre gli rispose allora con asprezza: Sacrificherò anche te alla Morte” (Katha Upanishad I.4).

La Verità Divina penetra allora nel cuore del bambino, che, comprendendo lo stato d’animo del genitore, il quale era già pentito della sua decisione, si affretta subito a consolarlo:

“Tieni conto del modo in cui tutti i tuoi avi sono andati e venuti. Questo andirivieni è il destino di tutti coloro che verranno dopo di noi. Al pari del grano anche l’uomo matura e cade sulla terra, e riemerge un’altra volta dalle ceneri come il grano” (Katha Upanishad I.5).

Sebbene apparentemente l’uomo nasca e muoia in continuazione, Naciketa riesce a realizzare che in realtà nessuno nasce e muore, e quindi, non bisognerebbe provare rammarico o dispiacere nel lasciare questo mondo.

Al deva della morte, Yama, Naciketa non chiede altri favori che di riconciliarsi con il padre e di essere istruito sul mistero del sacrificio del fuoco e della morte: “Nessun uomo è mai soddisfatto dalle ricchezze. Quale ricchezza può mai esistere, o Morte, dopo aver visto te? Dove mai è la vita quando la Morte bussa alla nostra porta? Che cosa significa la ricchezza (per un uomo che è destinato a morire)? Di conseguenza l’unica grazia degna di valore che ti si possa chiedere è questa e questa sola. Istruiscimi soltanto sul mondo futuro, sul quale la gente nutre dubbi. Istruiscimi unicamente su questo, di modo che tale conoscenza possa condurre al risultato più elevato” (Katha Upanishad, canto I.27-29).

La potenza dispiegata dal Signore Supremo nel proteggere i piccoli e gli indifesi è facilmente deducibile anche dalle particolari circostanze dell’avvento di Shri Krishna.

Bhagavan Shri Krishna venne sulla terra nel buio della notte, nei confini chiusi di una cella di prigione dove sua madre e suo padre erano tenuti prigionieri dal malvagio zio Kamsa. Tuttavia, al momento della sua apparizione, tutte le guardie si addormentarono, le catene si ruppero e le porte sbarrate furono gentilmente aperte. Così Vasudeva (padre di Krishna), in modo sicuro e facile trasportò il bambino Krishna attraverso il fiume Yamuna fino a Gokul.

Il messaggio di questa storia è chiaro: si può vivere nel buio della mezzanotte, si può essere legati e incatenati da tanti attaccamenti, tentazioni, rabbia, rancori, dolori e dalla forza vincolante di maya. Possiamo sentirci bloccati nella prigione dei nostri corpi, la prigione della dualità. Possiamo essere limitati nelle forze e indifesi come bambini. Tuttavia, non appena lasciamo che il Signore viva nei nostri cuori, l’oscurità svanisce, tutte le catene vengono spezzate e tutte le porte della prigione vengono aperte liberamente. Ovunque è il Signore non ci sono chiusure. Ovunque ci sia Dio, la protezione e la libertà sono assicurate.

Per ognuno di noi è facile identificarci in un bambino. Tutti siamo stati piccoli e indifesi, tutti siamo stati sgridati e abbiamo subito ingiustizie, tutti abbiamo avuto paura di perdere la sicurezza, l’approvazione, l’amore dei genitori, e tutti avremmo voluto per magia recuperare il calore, l’affetto e il benessere originario.

Tutelare l’infanzia, curare l’educazione dei bambini e proteggere la loro crescita valorizzando e sostenendo i talenti individuali dovrebbe essere il primo dovere di una società civile.

Nella cultura Vedica classica, la cui filosofia di vita si basava sui principi eterni del dharma e del karma, l’insegnamento dei bambini avveniva nella guru-kula, l’ashrama del maestro spirituale, dove il padre mandava i figli quando avevano raggiunto l’età di cinque anni. Oltre all’adeguata istruzione accademica, essi ricevevano una formazione spirituale completa, che li rendeva buoni cittadini, capaci di adempiere i loro doveri verso la società, e soprattutto di liberarsi dalle quattro miserie dell’esistenza materiale (nascita, malattia, vecchiaia e morte).

Preservare l’infanzia dai condizionamenti del mondo adulto e aiutare i bambini a crescere senza perdere lo stupore e l’immediatezza espressiva che li caratterizzano è fondamentale per l’acquisizione di quella dimensione puramente infantile che costituirà, in futuro, una realtà della loro struttura psicologica, quel puer aeternus che dimora in ognuno di noi e che mantiene in sé le caratteristiche legate al mondo dell’infanzia: giocosità, creatività, stupore, contatto con le profondità dell’anima, forza capace di riequilibrare un mondo adulto spesso svuotato, in cui viene a mancare l’entusiasmo, in cui non si sa godere del qui ed ora, in cui ci si vergogna ad esprimere le proprie emozioni e a chiedere aiuto.

Ascoltiamo i bambini e impariamo da loro il segreto della semplicità e dell’abbandono fiducioso  al vero sapere, al re di tutte le scienze, al più segreto dei segreti: l’Amore universale e incondizionato verso il creato, le creature e il Creatore.

“Quando un uomo ha grossi problemi - diceva Feodor Dostoevskij - dovrebbe rivolgersi a un bambino; sono loro, in un modo o nell’altro, a possedere il sogno e la libertà”.






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giovedì 25 ottobre 2018

LA CURA DEL SILENZIO






Delle cose segrete sono il silenzio e del saggio la saggezza

                                                                    (Bhagavad-gita X.38)



“Il silenzio è l’elemento più importante negli atti profondi e segreti che sono l’ascolto, il pensiero e la meditazione, perché conduce a un rapido progresso” – scriveva Shrila Prabhupada nel commento al verso 38 del X capitolo della Bhagavad-gita.



Tutte le Tradizioni attribuiscono al silenzio un carattere di sacralità: le verità più preziose sono quelle non dette, poiché nell’ombra e nel buio si sviluppano gli aspetti più nobili dell’esistenza.
Eppure, per molti, il silenzio è molto pesante da sostenere, forse perché siamo abituati a tenere per noi solo ciò che non ci perdoniamo, mentre non appena facciamo qualcosa di buono o ci succede qualcosa di bello non vediamo l’ora di raccontarlo ai quattro venti, distruggendo così l’incanto di ciò che ci è accaduto.
Invece il silenzio e il segreto ci restituiscono la nostra dimensione umana e ci fanno riscoprire la profondità insondabile e meravigliosa del nostro essere.
La nostra mente razionale avvolge la realtà, la nasconde, la definisce; il silenzio apre invece la porta alla mente silenziosa, alla coscienza profonda che non giudica, non categorizza. E predispone a un ascolto vero del mondo.
In particolare, la medicina psicosomatica consiglia la “cura del silenzio” per conservare spazi di crescita personali, per coltivare e proteggere i nostri sogni e i nostri progetti, proprio come un seme che solo nel buio può germogliare.


Scriveva l’abate Joseph Antoine Toussaint Dinouart nel suo classico del 1771 “L’Arte di tacere”: “Esiste un momento per tacere, così come esiste un momento per parlare. Nell’ordine, il momento per tacere deve sempre venire prima: solo quando si sarà imparato a mantenere il silenzio, si potrà imparare a parlare rettamente. In realtà è bene parlare solo quando si deve dire qualcosa che valga più del silenzio”.
“Il silenzio è venuto prima della parola e la parola è sorta dal silenzio come la vita  dalla morte”, ha affermato lo psicoanalista austriaco T. Reik.
Lo stesso Freud contemplò la possibilità di una comunicazione tra soggetti umani attraverso la telepatia, senza l’uso della parola.
“Quando due persone comunicano” - sosteneva lo psicoanalista ungherese S. Ferenczi – “lo fanno sempre a due livelli, di cui uno più profondo”. Quello che gli psicologi pragmatisti avrebbero in seguito chiamato la “metacomunicazione”, per Ferenczi era il “dialogo rilassato”. L’altro livello, linguistico, veniva da lui definito  “comunicazione attenta”.



Anche la Scienza dello Yoga contempla vari livelli di comunicazione, che a loro volta sottendono vari piani di realtà: “Secondo la Tradizione Vedica l’universo  è  costituito di psiche, è energia psichica in espansione, un pensiero complesso la cui condensazione è il mondo fisico, nel quale si esercita l’esperienza empirica. I livelli di percezione della realtà secondo lo Yoga sono sette e sono detti bhumi.
La prima bhumi è nama, la conoscenza nominale di un oggetto, lo stadio più basso di consapevolezza, che consiste nel conoscere le cose attraverso i loro nomi.
Al secondo livello troviamo rupa, che riguarda la conformazione esteriore di un oggetto, la sua forma e colore. Queste prime due bhumi sono particolarmente collegate tra loro, infatti il nome evoca la forma e viceversa.
La terza bhumi è detta vibhuti, che indica la manifestazione di una cosa, ovvero il modo in cui essa si presenta. Se si trattasse  ad esempio di un fuoco, sarebbe caldo e luminoso.
La quarta bhumi è la shakti, l’energia alla base delle qualità di un oggetto. Nel caso del fuoco,  le sue shakti sono la luce e il calore.
La quinta bhumi  si riferisce al guna, l’aspetto energetico-archetipo di una determinata realtà.
La sesta bhumi si riferisce allo “stato di essenza” delle cose, detto bhava.
E’ come se, spogliando l’oggetto di ogni sua caratteristica esteriore, dalla più tangibile alla più sottile, rimanesse soltanto l’oggetto in sé. Il successivo ed ultimo livello di conoscenza è svarupa, la reale, originaria natura di quell’oggetto, la sua forma eterna ed immutabile.
Secondo la psicologia yoga, essere consapevoli e capaci di discernere  correttamente e senza interruzione la realtà, conduce al superamento di ciascun livello di conoscenza, dal più basso,  quello nominale (nama), a quello più elevato, svarupa”.
(tratto da: Marco Ferrini, “Pensiero, Azione, Destino”,CSB, 2004).



“Tutte le Tradizioni Spirituali considerano la scelta consapevole del silenzio un esercizio fondamentale per lo sviluppo delle qualità più nobili dell’essere umano.

In Sanscrito il silenzio spiritualmente motivato viene definito con l’espressione mauna, ben lontano dal silenzio connotato da emozioni negative, quali la timidezza, la rabbia o l’indifferenza.

Mauna può essere applicato a diversi livelli: vak mauna (semplice rinuncia a parlare), kashta mauna (rinuncia a qualsiasi forma di comunicazione), maha mauna (rinuncia assoluta a qualsiasi attività mentale). Può essere praticato per brevi periodi o per tutta la vita e ha sempre lo stesso fine: il raggiungimento del silenzio interiore e la pace della mente al fine di riconnettersi con il proprio eterno Sé.


L’uomo è costituito da cinque kosha (o involucri): il corpo fisico (annamayakosha), l’energia vitale (pranamayakosha), la mente (manomayakosha), l’intelletto (vijnanamayakosha) e la beatitudine (anandamayakosha). All’interno dei cinque kosha risiede il Sé (atman). Secondo la dottrina yoga, oltre la materia e al mondo fenomenico, esistono altri piani e livelli di realtà, più sottili, più veri ed estesi, immortali. Riducendo al silenzio i kosha, ovvero trascendendoli, l’uomo raggiunge il samadhi, l’assorbimento della coscienza nel Sé. La ricerca dell’equilibrio si basa sul riconoscimento del ritmo della vita fondato sul bilanciamento degli opposti: inspirazione-espirazione; sonno-veglia; parlare-tacere. L’uno non può fare a meno dell’altro; la qualità dell’uno influenza e determina la qualità dell’altro. Trovare un ritmo sano e benefico è il mezzo attraverso il quale ci orientiamo  verso la piena consapevolezza della nostra vera natura di esseri spirituali.
E’ abbastanza evidente che la maggior parte delle persone sia molto più incline a parlare che a stare in silenzio. Socrate affermava che dovremmo comunicare con gli altri solo se le nostre parole rispecchiano la pura verità, la bontà e la bellezza e solo se sono di sicura utilità.
Molti maestri spirituali sottolineano come il molto parlare indebolisca la capacità di concentrazione e di meditazione, renda la respirazione superficiale ed irregolare e finisca col “bruciare” energie e provocare stanchezza. Il mauna, invece, indirizza l’energia della parola in ojas, l’essenza vitale che pervade tutti i tessuti. E’ importante quindi crearsi oasi di silenzio e di riposo della mente, pur non trascurando i nostri obblighi di comunicazione con l’esterno.


Non dobbiamo imporci il silenzio, ma abituarci gradualmente a scoprirne i benefici. L’esercizio del silenzio consapevole praticato in coppie, in gruppo, o in comunità numerose, può riservare momenti di straordinaria scoperta di piani ed energie nuove, quali un senso di libertà, di pace e di riposo simili a quelli che proviamo quando passeggiamo da soli nella natura o in silenzio svolgiamo semplici attività quotidiane.
Ciò che in noi parla incessantemente è l’Ego. Il sé supremo è eternamente silenzioso”. (liberamente tratto da https://didomizioalex.wordpress.com,  ricerca di  Anna Orsini).
Patanjali, il grande studioso compilatore degli Yoga Sutra, individua - tra le regole etiche basilari per praticare in modo corretto l’arte dello Yoga – il principio dell’ascesi, tapas,   traducibile anche come “austerità, capacità di accettare volontariamente alcune restrizioni materiali per ottenere benefici superiori”.
Si narra che Brahma, il padre di tutti gli esseri e il primo essere creato nell’universo, confuso sulla sua origine e sulla sua vera identità, udite le sillabe divine ta-pa, che risuonarono nello spazio infinito, comprese di doversi impegnare nella meditazione prima di generare il cosmo intero e tutti gli esseri viventi. La disciplina della parola costituisce quindi una pratica indissolubilmente connessa alla ricerca spirituale.
Il silenzio è anche la condizione imprescindibile per predisporsi all’ascolto.
L’ascolto (delle glorie del Signore) è una delle nove pratiche devozionali classiche della Tradizione Bhaktivedantica (le altre otto sono il ricordo, il canto, il servizio, l’adorazione, la preghiera, l’amicizia, l’umiltà e l’abbandono a Dio).



Nel suo libro “Le Qualità del Ricercatore Spirituale”, Marco Ferrini, presidente e fondatore del Centro Studi Bhaktivedanta, analizzando le ventisei virtù che ognuno di noi dovrebbe sviluppare per vivere in armonia con sé stessi e con le leggi cosmiche universali, citate e trattate nei due testi cardine della Tradizione Gaudiya Vaishnava, cioè la Bhagavad-gita e la Caitanya-caritamrita, così si esprime: “Il devoto è definito mauni, silenzioso, perché non ha alcun desiderio di dibattere temi che non riguardano la realizzazione spirituale e che non portano ad illuminare la via per il ritorno a Dio. Mauni significa anche tolleranza e rispetto per gli altri, anche per coloro che hanno la tendenza ad intrattenere gli altri con argomenti futili. In questi casi il silenzio vale molto più della parola, come il digiuno ha più valore rispetto ad un pasto immangiabile”.


“La vita è quello che succede mentre sei impegnato a fare altri progetti”, cantava John Lennon in un pezzo dedicato al figlio, riprendendo un antico motto del sufismo. Tutti presi dall’inseguire  modelli esterni, ripetiamo continuamente parole vuote.
Il nostro mondo interno non si stanca mai di farsi sentire, anche quando ci incaponiamo lungo sentieri che non ci appartengono: ci richiama con una crisi, con una malattia, con un dissesto finanziario, con un’improvvisa perdita dei nostri falsi punti di riferimento, ma il più delle volte non lo ascoltiamo perché abbiamo la testa piena di preconcetti e di frasi fatte.
Per disintossicare la mente occorre curarsi con il silenzio.


Scrive Jung: “La solitudine è per me una fonte di guarigione che rende la mia vita degna di essere vissuta. Il parlare è spesso un tormento per me e ho bisogno di molti giorni di silenzio per ricoverarmi dalla futilità delle parole”.
Solo nel silenzio può emergere ciò che siamo, perché le parole non fanno altro che ingolfare il nostro motore interno, così come sassolini gettati su una sorgente corrono il rischio di otturarla. Nell’assenza di parole, invece, possiamo udire  la nostra voce interiore, che conosce quello che ci serve per stare bene e di continuo ce lo ricorda.


Caterina Carloni





Se vuoi capire l’altro non ascoltare le parole che dice ma quelle che non dice. Tace in noi ciò che è vero, parla ciò che è acquisito.

                                                                                                                              Khalil Gibran




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