“Tre cose ci sono rimaste del paradiso: le stelle, i fiori e i
bambini” (Dante Alighieri)
“Un tempo lontano, quando avevo sei anni, in un
libro sulle foreste primordiali vidi un magnifico disegno: rappresentava un
serpente boa nell’atto di inghiottire un animale. Sotto c’era scritto: “I boa
ingoiano la loro preda tutta intera, senza masticarla. Dopo di che non riescono
più a muoversi e dormono durante i sei mesi che la digestione richiede”.
Meditai a lungo sulle avventure della jungla, e, a mia volta, riuscii a
tracciare il mio primo disegno. Poi mostrai il mio capolavoro alle persone
grandi, domandando se il disegno li spaventava, ma tutti mi risposero:
“Spaventare? Perché mai uno dovrebbe essere spaventato da un cappello?”. Ma il
mio disegno non era quello di un cappello. Era il disegno di un boa che
digeriva un elefante. Fu così che a sei anni io rinunciai a quella che avrebbe
potuto essere la mia gloriosa carriera di pittore. Scelsi un’altra professione
e imparai a pilotare gli aeroplani. Nel tempo, ho incontrato molte persone
importanti e ho vissuto a lungo in mezzo ai grandi. Li ho conosciuti
intimamente, li ho osservati proprio da vicino. Ma l’opinione che avevo di loro
non è molto migliorata. Quando ne incontravo uno che mi sembrava di mente
aperta, tentavo l’esperimento del mio primo disegno, che ho sempre conservato.
Cercavo di capire così se era veramente una persona comprensiva. Ma, chiunque
fosse, uomo o donna, mi rispondeva: “E’ un cappello”. E allora non parlavo di
boa, di foreste primitive, di stelle. Mi abbassavo al suo livello. Gli parlavo
di bridge, di golf, di politica, di cravatte. E lui era tutto soddisfatto di
aver incontrato un uomo tanto sensibile.”
Così comincia il famoso racconto di Antoine de
Saint-Exupery “Il piccolo Principe” (1943), un vero e proprio inno alla
purezza dei sentimenti dei bambini e alla loro capacità di vedere il mondo con
idealismo e candore, riuscendo a ricontattare, pur tra le asprezze e le
delusioni della vita, il lato poetico e misterioso dell’esistenza.
Il Piccolo Principe - l’archetipo del puer aeternus (l’eterno fanciullo o
fanciullo divino) - incarna la tendenza, tipica dell’infanzia, a restare
affascinati dalla natura, dal gioco, dalle piccole cose che appaiono come doni
inestimabili della vita; esprime la saggezza che deriva dal saper ascoltare le
favole, parlare con gli animali e coglierne i segreti, come quello sussurrato
al bambino dalla sua amica Volpe: “Ecco il mio segreto. E’ molto semplice: non
si vede bene che con il cuore, perché l’essenziale è invisibile agli occhi”.
Coniato nel 1912 da Jung, il termine puer
aeternus fu successivamente ripreso
da altri psicologi e terapeuti dell’epoca che addirittura lo impiegarono come
sinonimo dell’Es, l’inconscio
individuale.
L’archetipo, vasto e complesso, racchiude, in
realtà, come tutti i simbolismi, molte contraddizioni, zone d’ombra e
differenti sfumature interpretative: per Jung il bambino interiore rappresenta
l’inizio e la fine, la creatura che esisteva prima dell’uomo e, al tempo
stesso, la creatura finale, un’anticipazione di quello che la creatura sarà e
della sua vita oltre la morte. Il suo tema è legato alla rinascita,
alla gioia e alla creatività, ma può avere anche una connotazione aggiuntiva
diversa: l’allieva prediletta di Jung, M.L. Von Frantz, ha preso in esame, ad
esempio, nel suo libro “Il Puer aeternus”, il suo aspetto di ombra; se
da un lato, infatti, il bambino rappresenta il rinnovamento della vita, la
spontaneità ed una nuova apertura verso il futuro, dall’altro manifesta anche
un aspetto distruttivo: la tendenza a essere dipendente, pigro e a fuggire i
problemi, rappresentando “l’infantilismo” che deve essere sacrificato per poter
crescere.
L'opposto polare del Puer, secondo la visione di Jung, è il Senex, ovvero la rappresentazione mitologica di Saturno/Cronos, il signore del Tempo e del
Karma. Saturno è il pianeta simbolicamente preposto alla strutturazione
dell'Io, quindi alla maturazione e concretizzazione degli obiettivi, associato
alla razionalità e alla fredda logica. Mentre il Senex si perfeziona attraverso il tempo, per il Puer non esiste sviluppo. Egli non possiede un volto organico
che maturi, cresca e si trasformi.
Come ben rileva Hillmann nei suoi studi (“Saggi sul Puer”, 1986), tuttavia, “….. è solo nella prospettiva dell’Io che divengono possibili le opposizioni, generando, come nel caso di Puer e Senex, un archetipo bifronte”. I due modelli convergono, secondo l’autore, nella figura di Ulisse, il quale, grazie a questa sua doppia valenza, viene condotto dal cieco Tiresia all’iniziazione rituale della discesa al mondo degli inferi. “…Ciò gli consente di cogliere il significato della sua missione nel mondo: lo spirito giovane trova la sua controparte ammonitrice e piena di esperienza che gli insegna la sopravvivenza mentre l’uomo adulto ritrova il pathos dell’eroe e il cuore ridestato. Può così salpare di nuovo e continuare a viaggiare”.
Come ben rileva Hillmann nei suoi studi (“Saggi sul Puer”, 1986), tuttavia, “….. è solo nella prospettiva dell’Io che divengono possibili le opposizioni, generando, come nel caso di Puer e Senex, un archetipo bifronte”. I due modelli convergono, secondo l’autore, nella figura di Ulisse, il quale, grazie a questa sua doppia valenza, viene condotto dal cieco Tiresia all’iniziazione rituale della discesa al mondo degli inferi. “…Ciò gli consente di cogliere il significato della sua missione nel mondo: lo spirito giovane trova la sua controparte ammonitrice e piena di esperienza che gli insegna la sopravvivenza mentre l’uomo adulto ritrova il pathos dell’eroe e il cuore ridestato. Può così salpare di nuovo e continuare a viaggiare”.
Sul piano mitologico, il puer è correlato all’immagine del paradiso perduto, quel luogo
d'amore, armonia e felicità che precede il cosiddetto peccato originale e la
conseguente “caduta” al piano dualistico dell'esistenza (o separazione da Dio).
La
letteratura occidentale ce lo propone personificato, a seconda degli autori, in
Peter Pan, Icaro, Hermes/Mercurio, i gemelli Castore e Polluce ed Eros/Cupido. La puella
trova invece la sua raffigurazione più potente nella figura di Kore-
Persefone.
Hermes è il giovane Dio,
messaggero dell'Olimpo, dotato di calzari alati che gli permettono di volare.
Si diletta a fare scherzi ai divini fratelli, ma viene sempre perdonato dal
Padre Zeus, poiché la caratteristica dell’eterno fanciullo è di suscitare in
tutti simpatia. Il dio presiede le facoltà intellettive e la comunicazione; ha
il compito di far circolare le informazioni e le notizie. Per fare ciò, sorvola
velocemente il mondo delle idee, saltando da un luogo all'altro, discontinuo e
in perenne moto.
Anche Peter Pan, noto puer aeternus delle favole, ama solo giocare, anzi; per
lui non c'è alcuna differenza tra gioco e realtà, e la cosa che più teme è la
noia. É in grado di volare perché non ha mai smesso di credere di poterlo fare.
Una rappresentazione recente del puer è anche la figura di Mozart così come è stata portata sullo schermo
nel film di Milos Forman Amadeus: gioioso, giocoso, irriverente, ben convinto del suo talento, in
estasi di fronte agli apprezzamenti.
La letteratura dell’India antica
contiene numerose storie i cui protagonisti sono fanciulli dotati di qualità
divine. Non solo: le Scritture Vediche affermano chiaramente che i bambini
rappresentano una delle molte vie attraverso le quali Dio si manifesta agli
uomini per indicare loro la strada per raggiungerLo.
L’undicesimo Canto dello Srimad Bhagavatam,, indica, oltre al diksha-guru, che inizia ai sacri mantra, e allo siksha-guru, che dà gli Insegnamenti,
ben altri ventiquattro guru, tra cui
il bambino. Essi appaiono all’inizio
della sezione chiamata Uddhava-gita,
in cui Uddhava, devoto e cugino
di Krishna, s’incontra con Lui poco prima della Sua partenza da questo mondo
per chiederGli istruzioni spirituali.
Shri Krishna spiega ad Uddhava che il loro antenato,
il re Yadu, conosceva un giovane avadhuta,
un rinunciato senza fissa dimora che aveva lasciato tutte le sue proprietà
e le sue responsabilità materiali. Yadu notò che questo giovane aveva un
aspetto sereno e gioioso benché non avesse alcuna delle consuete comodità della
vita. E allora gli chiese come facesse ad essere così felice. L’avadhuta rispose che era stato
abbastanza fortunato da avere avuto molti maestri, i quali gli avevano indicato
il cammino da percorrere:
“O re, ho preso rifugio in ventiquattro guru, che sono i seguenti: la terra,
l’aria, lo spazio, l’acqua, il fuoco, la luna, il sole, il piccione e il
pitone; il mare, la falena, l’ape mellifera, l’elefante e il ladro di miele; il
cervo, il pesce, la prostituta Pingala, l’uccello kurara e il bambino; la
ragazza, il fabbricante di frecce, il serpente, il ragno e la vespa. Mio caro
re, studiando le loro attività ho appreso la scienza di sé” (Srimad-Bhagavatam XI.7.35).
L’insegnamento ricevuto dal bambino viene così
descritto:
“Nella vita di famiglia, i genitori sono sempre
ansiosi per la casa, per i figli e per la reputazione. Ma io non ho nulla a che
vedere con queste cose. Non mi preoccupo affatto della famiglia, non m’importa
dell’onore e del disonore. Godo soltanto della vita dell’anima, e trovo l’amore
sul piano dello spirito; così viaggio sulla terra come un bambino” (Shrimad-Bhavagatam XI.9.4).
La vicinanza tra il mondo infantile e quello
divino è testimoniato anche da altre tradizioni spirituali, come quella
cristiana: “Lasciate che i bambini vengano a me, perché di essi è il regno dei
Cieli; se non diventerete come bambini non potrete entrare nel regno di Dio”, è
scritto nel Vangelo di San Luca (18.15-17). Diventare come bambini significa recuperare
lo sguardo incantato sul mondo; sapersi liberare da schemi e pregiudizi per
ritrovare la purezza, la capacità di provare meraviglia e di sentire una
fiducia incondizionata verso la vita. Vuol dire ritrovare la semplicità e
l’abbandono filiale a Dio.
Negli Yoga Sutra di Patanjali,
ciò è sottolineato con forza:
“Ishvara pranidhanad va”, [ samadhi può essere ottenuto]
praticando l’abbandono a Dio.
“Il samadhi può anche
manifestarsi non necessariamente come il frutto di una metodologia rigorosa ma
spontaneamente, causato dall’amore per Dio” (Marco Ferrini, “Psicologia
dello Yoga”, commento agli Yoga Sutra di Patanjali, Samadhi Pada,
sutra XXIII).
É fondamentale per ognuno di noi
riuscire a contattare e risvegliare il fanciullo divino che dimora nella nostra
anima, perché è l'unico che ci consente di vivere la realtà senza rinunciare ai
nostri sogni, ideali e valori.
Recuperare la dimensione archetipica del bambino
equivale a portare nella nostra vita valori di umanità, coraggio nel tendere
una mano anche a chi ci osteggia, ricongiungersi con la nostra parte bambina
ferita e trascendere quel dolore, imparare a perdonarsi e a perdonare. Come
dimostra la straordinaria storia di Prahlada Maharaja, un bambino di appena
cinque anni dal cuore puro e dotato di divina saggezza, narrata nel settimo
canto dello Srimad-Bhagavatam:
“Hiranyakashipu (il terribile demone che
terrorizzava l’universo intero) aveva quattro figli meravigliosi, ma tra loro
Prahlada era il migliore. Prahlada, infatti, era la fonte di tutte le qualità
spirituali perché era un puro devoto di Dio, la Persona Suprema” (Shrimad-Bhagavatam VII.4.30).
“Dotato di ottimo carattere e di un’eccellente
cultura degna di un brahmana qualificato,
Prahlada era fermamente determinato a comprendere la Verità Assoluta e dominava
in modo perfetto la mente e i sensi. Era gentile verso tutti gli esseri come lo
è l’Anima Suprema, ed era il migliore amico di tutti: con le persone degne di
rispetto agiva esattamente come un umile servitore, per i poveri era come un
padre, per i suoi pari era affettuoso come un fratello comprensivo, e
considerava i suoi maestri spirituali e i confratelli più anziani come Dio, la
Persona Suprema stessa. Era completamente libero dall’orgoglio innaturale che
avrebbe potuto nascere in lui a causa della sua buona educazione, delle sue
ricchezze, della sua bellezza, della sua aristocrazia o altro (Shrimad-Bhagavatam VII.4.31-32).
Pur essendo nato in una famiglia di demoni (asura), il bambino non era un demone, ma
un grande devoto di Dio e per questo motivo suo padre lo tormentava
continuamente, benché egli fosse il suo stesso figlio. Quanto più Prahlada
Maharaja glorificava il Signore Supremo, tanto più il demone suo padre si
agitava e s’irritava, fino al punto da decidere di ucciderlo. Un giorno
Hiranyakashipu, esasperato dalla ferma devozione e fede di suo figlio, gli
chiese se per caso Dio fosse presente anche nelle colonne del palazzo. Prahlada
immediatamente affermò che, grazie alla Sua onnipresenza, il Signore era
certamente anche là. Nell’ascoltare questa risposta dalle labbra del bambino,
Hiranyakasihpu cominciò a deriderlo definendo fantasie infantili le sue
affermazioni e assestando contemporaneamente con forza un pugno sulla colonna.
Non appena ebbe colpito la colonna, un suono
tumultuoso ne uscì, e apparve il Signore nella meravigliosa forma di Sri
Nrisimhadeva, mezzo uomo e mezzo leone, che uccise immediatamente il re dei
demoni. Quindi il Signore si sedette sul trono, mentre Prahlada Maharaja Gli
offriva omaggi e preghiere.
“Quando Sri Nrisimhadeva vide il piccolo Prahlada Maharaja prostrato
alle piante dei suoi piedi di loto, sentì una grande estasi suscitata
dall’affetto verso il Suo devoto. Sollevando Prahlada, il Signore appoggiò
sulla testa del bambino la Sua mano di loto che è sempre pronta a dissipare la
paura in tutti i Suoi devoti (Shrimad-Bhagavatam
VII.7.5).
“Caro Signore – disse Prahlada Maharaja – la
gente desidera elevarsi ai sistemi planetari superiori per godere di una lunga
vita di opulenza e di piacere, ma io ho già considerato tutto ciò nell’attività
di mio padre. Quando mio padre in collera rideva con sarcasmo degli esseri
celesti, essi erano immediatamente vinti da un semplice movimento delle sue
sopracciglia. Eppure, mio padre che era così potente, è stato dominato e
liberato da Te in un attimo. Caro Signore, ora ho un’esperienza completa di ciò
che si riferisce all’opulenza di questo mondo, ai poteri mistici, alla
longevità e agli altri piaceri materiali di cui godono tutti gli esseri, da
Brahma fino alla formica. Nella forma del tempo potente Tu li distruggi tutti.
Perciò, grazie alla mia esperienza, io non desidero possederli. Signore, Ti
chiedo di mettermi in contatto con un Tuo puro devoto e fare in modo che io
possa servirlo come un sincero servitore” (Shrimad-Bhagavatam
VII.9.23-24).
Dio, la Persona Suprema, disse: “Caro Prahlada,
tu sei così buono. Auguro ogni buona fortuna a te, che sei il migliore nella
famiglia degli asura. Sono molto
soddisfatto di te. É mia gioia soddisfare i desideri di tutti gli esseri,
perciò tu puoi chiederMi qualunque benedizione desideri ottenere” (Shrimad-Bhagavatam VII.9.52).
Il grande devoto Prahlada Maharaja chiese la
sola benedizione del perdono delle attività colpevoli del padre e, su ordine
del Suo Salvatore, Shri Nrisimha, si insediò sul trono agendo come un re saggio
e giusto, distaccato dai beni materiali e incessantemente assorto ad ascoltare gli
Insegnamenti del Signore e ad adorarlo.
L’abbandono al Signore Supremo da parte del
piccolo Prahlada, gli consente di superare tutte le prove e di conquistare il
favore divino, proprio come affermato nella Bhagavad-gita:
“Coloro che seguono la via imperitura del servizio di devozione e s’impegnano
in modo totale, con fede, facendo di me l’obiettivo supremo, Mi sono molto,
molto cari” (Bhagavad-gita XII.20).
Un’altra affascinane storia, riguardante un bambino dalle
doti straordinarie e dalla tenacia irremovibile nel ricercare la grazia del
Signore Supremo, si trova nel IV canto dello Shrimad-Bhagavatam. Si racconta che Dhruva, un bambino di cinque anni, figlio
del re Uttanapada, fu offeso così profondamente nel suo orgoglio, vedendosi
respinto dal padre, che decise di praticare una penitenza di sei mesi
astenendosi dal cibo e dall’acqua. Con la mente fissa sul Signore e recitando
un potente mantra, chiese a Dio di diventare il più potente re dei tre
mondi e di occupare una posizione mai raggiunta da nessuno prima di lui. Questo
sacrificio impressionò i cieli e Shri Vishnu apparì di fronte al ragazzo per
accontentarlo, ma proprio in quel momento, Dhruva, il bambino kshatriya (il comparto sociale dei
guerrieri secondo la cultura vedica), comprese che il vero fine dell’esistenza
non era il successo materiale ma la liberazione dalla ruota di nascite e morti,
e si accorse di aver pregato solo per cose inutili. Grazie alla sua
comprensione dei valori eterni e della caducità dei beni terreni, Dio, il
Signore Supremo, gli concesse di governare sulla Stella Polare, il grande
pianeta scintillante circondato da tutti i sistemi solari. Questa storia ci
insegna che tra i grandi pregi dei bambini c’è la capacità di crescere,
ravvedersi e apprendere.
Anche nella Katha
Upanishad è narrata la storia di un bambino di 10 anni che insegna, con il
suo esempio, a percorrere il cammino della conoscenza spirituale e della liberazione dagli attaccamenti.
Naciketa, figlio di un brahmino (un sacerdote
che officiava i sacrifici volti ad ottenere il favore divino), ispirato da
profonda saggezza, intuisce l’inutilità di un sacrificio tramite il quale si
rinuncia a tutto (vacche, oro e ogni altra proprietà) tranne che a se stessi,
trattenendo proprio quell’ego che è alla radice di ogni sofferenza e causa
dell’incatenamento alla legge di nascite e morti.
“Naciketa, avvicinatosi (un giorno) al proprio
padre, gli chiese: Padre, a chi mi offrirai come sacrificio? Il fanciullo pose
questa domanda due volte, e poi una terza. Suo padre gli rispose allora con
asprezza: Sacrificherò anche te alla Morte” (Katha Upanishad I.4).
La Verità Divina penetra allora nel cuore del
bambino, che, comprendendo lo stato d’animo del genitore, il quale era già
pentito della sua decisione, si affretta subito a consolarlo:
“Tieni conto del modo in cui tutti i tuoi avi
sono andati e venuti. Questo andirivieni è il destino di tutti coloro che
verranno dopo di noi. Al pari del grano anche l’uomo matura e cade sulla terra,
e riemerge un’altra volta dalle ceneri come il grano” (Katha Upanishad I.5).
Sebbene apparentemente l’uomo nasca e muoia in continuazione,
Naciketa riesce a realizzare che in realtà nessuno nasce e muore, e quindi, non
bisognerebbe provare rammarico o dispiacere nel lasciare questo mondo.
Al deva della morte, Yama, Naciketa non
chiede altri favori che di riconciliarsi con il padre e di essere istruito sul
mistero del sacrificio del fuoco e della morte: “Nessun uomo è mai soddisfatto
dalle ricchezze. Quale ricchezza può mai esistere, o Morte, dopo aver visto te?
Dove mai è la vita quando la Morte bussa alla nostra porta? Che cosa significa
la ricchezza (per un uomo che è destinato a morire)? Di conseguenza l’unica
grazia degna di valore che ti si possa chiedere è questa e questa sola.
Istruiscimi soltanto sul mondo futuro, sul quale la gente nutre dubbi.
Istruiscimi unicamente su questo, di modo che tale conoscenza possa condurre al
risultato più elevato” (Katha Upanishad,
canto I.27-29).
La potenza dispiegata dal Signore Supremo nel
proteggere i piccoli e gli indifesi è facilmente deducibile anche dalle
particolari circostanze dell’avvento di Shri Krishna.
Bhagavan Shri Krishna venne sulla terra nel buio
della notte, nei confini chiusi di una cella di prigione dove sua madre e suo
padre erano tenuti prigionieri dal malvagio zio Kamsa. Tuttavia, al momento
della sua apparizione, tutte le guardie si addormentarono, le catene si ruppero
e le porte sbarrate furono gentilmente aperte. Così Vasudeva (padre di
Krishna), in modo sicuro e facile trasportò il bambino Krishna attraverso il
fiume Yamuna fino a Gokul.
Il messaggio di questa storia è chiaro: si può
vivere nel buio della mezzanotte, si può essere legati e incatenati da tanti
attaccamenti, tentazioni, rabbia, rancori, dolori e dalla forza vincolante di maya.
Possiamo sentirci bloccati nella prigione dei nostri corpi, la prigione della
dualità. Possiamo essere limitati nelle forze e indifesi come bambini.
Tuttavia, non appena lasciamo che il Signore viva nei nostri cuori, l’oscurità
svanisce, tutte le catene vengono spezzate e tutte le porte della prigione
vengono aperte liberamente. Ovunque è il Signore non ci sono chiusure. Ovunque
ci sia Dio, la protezione e la libertà sono assicurate.
Per ognuno di noi è facile
identificarci in un bambino. Tutti siamo stati piccoli e indifesi, tutti siamo
stati sgridati e abbiamo subito ingiustizie, tutti abbiamo avuto paura di
perdere la sicurezza, l’approvazione, l’amore dei genitori, e tutti avremmo
voluto per magia recuperare il calore, l’affetto e il benessere originario.
Tutelare l’infanzia, curare
l’educazione dei bambini e proteggere la loro crescita valorizzando e
sostenendo i talenti individuali dovrebbe essere il primo dovere di una società
civile.
Nella cultura Vedica classica, la cui filosofia
di vita si basava sui principi eterni del dharma e del karma,
l’insegnamento dei bambini avveniva nella guru-kula,
l’ashrama del maestro spirituale,
dove il padre mandava i figli quando avevano raggiunto l’età di cinque anni.
Oltre all’adeguata istruzione accademica, essi ricevevano una formazione
spirituale completa, che li rendeva buoni cittadini, capaci di adempiere i loro
doveri verso la società, e soprattutto di liberarsi dalle quattro miserie
dell’esistenza materiale (nascita, malattia, vecchiaia e morte).
Preservare l’infanzia dai condizionamenti del
mondo adulto e aiutare i bambini a crescere senza perdere lo stupore e
l’immediatezza espressiva che li caratterizzano è fondamentale per l’acquisizione
di quella dimensione puramente infantile che costituirà, in futuro, una realtà
della loro struttura psicologica, quel puer
aeternus che dimora in ognuno di noi e
che mantiene in sé le
caratteristiche legate al mondo dell’infanzia: giocosità, creatività, stupore,
contatto con le profondità dell’anima, forza capace di riequilibrare un mondo
adulto spesso svuotato, in cui viene a mancare l’entusiasmo, in cui non si sa
godere del qui ed ora, in cui ci si vergogna ad esprimere le proprie emozioni e
a chiedere aiuto.
Ascoltiamo i bambini e impariamo da loro il
segreto della semplicità e dell’abbandono fiducioso al vero sapere, al re di tutte le scienze, al
più segreto dei segreti: l’Amore universale e incondizionato verso il creato,
le creature e il Creatore.
“Quando un uomo ha grossi problemi - diceva Feodor Dostoevskij -
dovrebbe rivolgersi a un bambino; sono loro, in un modo o nell’altro, a
possedere il sogno e la libertà”.
Nessun commento:
Posta un commento